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8 gennaio 2013

Il sistema educativo e lavorativo, aimè, in Italia

Verso la fine del 1999 a Roma, all’età di 25 anni, finita l’università ebbi la fortuna che mio padre (più che altro un santo) mi offrì di trasferirmi e seguire una specializzazione all’estero. Cosi dopo alcune ricerche presso l’ambasciata inglese, americana e canadese scelsi inizialmente un percorso di studi che mi permettesse prima di tutto di imparare la lingua inglese, ma impararla veramente, cioè parlarla e scriverla fluentemente non come molti credono di fare o sapere.

Cosi, dettato anche dal valore piu basso del dollaro canadese rispetto a quello americano, alla sterlina (!) ed all’euro decisi di attraversare l’oceano e dopo dodici ore di volo sbarcare a Vancouver, città situata nella famosa regione canadese conosciuta come il British Columbia vicino al confine con lo stato di Washington negli Stati Uniti. Non ricordo se fosse il 2 o il 3 gennaio del 2000 quando atterrai in quel paese, che con un inconsapevole dolcezza, mi segnerà per tutta la vita dandomi un impronta educativa.

Inizia fin da subito a frequentare la scuola di lingua inglese per stranieri (Ilsc-Canada). Quest’ultima era molto affollata e frequentata da ragazzi coetanei provenienti da diversi paesi, alcuni si erano trasferiti a vivere con le famiglie a Vancouver altri erano venuti da soli come me per approfondire la lingua. Ogni mattina avevo lezione in classe mentre il pomeriggio lo sfruttavo per eseguire gli esercizi da portare il giorno successivo. Mi ritrovai inserito in un sistema educativo ben delineato, non solo dalla struttura scolastica dove gli addetti mi mostravano il percorso da seguire, insegnandomi e correggendomi con precisione e dedizione, ma anche dalle famiglie canadesi (e ne girai parecchie…) che mi affittavano la camera e che a loro modo, come se fossi un loro figlio, mi insegnavano e mi spiegavano come in generale mi dovessi comportare con gli altri. Qui imparai ad esempio, cosa che io latino caliente non conoscevo, la fredda ed educata calma da usufruire in certe relazioni. Da una parte ciò sicuramente mi fece bene dall’altra come risultato è che oggi sono un tipo fin troppo controllato a volte. La vita in quel periodo era nuova per me ed entusiasta del contesto che mi distraeva nel frattempo studiavo senza particolari difficoltà.

Ci tengo a precisare che non ero rimasto un emarginato, bensi la mia vita sociale si era estesa alla popolazione locale nel senso che mi ero creato una serie di conoscenze canadesi con cui mi frequentavo. Passarono cosi i primi sei mesi… alla fine dei quali ebbi quello che viene chiamato “cultural shock”. Dopo essermi discretamente inserito nel paese ne rimasi shokkato per le forti  incomprensioni culturali con cui cozzavo. Di solito dopo un pò succede a qualsiasi emigrato. La sensazione che avevo in quel momento era come di amore ed odio, fuggire o rimanere, tutto e tutti completamente diversi da me, ma per assurdo allo stesso tempo come se fossero un tutt’uno con me. Ricordo che un giorno all’ora di pranzo camminando per strada scoppiai a piangere seriamente disperato davanti ai passanti che mi guardavano allibiti. Sentivo il cuore a pezzi, il mio caro ed amato paese, l’Italia, mi mancava da impazzire. Mi mancavano i cappuccini, mi mancavano le palazzine a misura d’uomo (paragonate ai grattacieli americani che affollavano downtown), mi mancava il sole d’agosto che mi faceva soffocare.

Bene, a Vancouver ci rimasi senza mai tornare in Italia non sei mesi, bensi per quasi un anno e mezzo, c’è stato un punto in cui ho iniziato a sognare anche in inglese…e…lo dico qui e subito…maledetto il giorno che sono tornato in Italia. Lo shock dopo sparì, piu passava tempo piu capivo ed apprezzavo sempre meglio i canadesi e la loro cultura, avevo imparato a ragionare come loro, mi ero liberato del tutto di quella mentalità stereotipizzata tipica di noi italianucci, ridicolamente arretrati e provinciali: cosi siamo visti dagli stranieri d’oltre oceano. Non so, bisognerebbe vivere quello che ho vissuto per capire veramente cosa intendono.

Esegui il T.o.e.f.l. (Test of English as a Foreign Language: esame ufficiale per gli studenti non di madrelingua inglese usato per accedere alle università) ed ottenni il punteggio obbligatorio per iscrivermi al College di Information Technology (Bodwell College). Da qui la seconda svolta che mi ha portato oggi a diventare un informatico professionista specializzato nella progettazione software. I professori/istruttori erano molto informali ma gentili, diretti, espliciti, lampanti e schematici nelle loro spiegazioni che erano quasi sempre seguite da un consistente numero di esercitazioni a partire dalla prima lezione. La cosa che piu mi colpi è che si sforzavano, riuscendoci, di spiegare argomenti complessi stimolando l’interesse e la curiosità dello studente. Dopo ogni bimestre mi si ponevano una serie di esami di fronte. Dopo otto mesi terminai con successo il college. Fu molto duro e stressante non solo per la lingua che non era la mia. Cosi colto sempre da quello strazio che saltuariamente mi prendeva sulla mancanza dell’Italì decisi di tornare a Roma. Salutai tutti. Qualcuno con il sorriso ironico mi strinse la mano come per dire ‘buon ritorno nel vecchio mondo’, altri (qualcun’altra) si mise a piangere. Imparai molto in quell’anno e mezzo rispetto agli anni trascorsi nell’università italiana che, umanistica o scientifica che sia non da la preparazione adatta per il mondo del lavoro…e sfondo aimè una porta aperta quando leggo dalle statistiche ufficiali risalenti al 2010 che i datori di lavoro ai fini di un’assunzione prediligono l’esperienza rispetto al titolo di studio !

Iniziai a spedire un po di curriculum e nel giro di pochi mesi fui contatto da diverse aziende d’informatica per scoprire che… in Italia il web, l’area in cui mi ero specializzato, era ancora agli albori e che erano attratti dal mio master canadese che evidentemente mi aveva dato delle competenze ancora non conosciute benissimo da noi. Questa foglia verde splendente che mi ritrovavo tra le mani rimase di quel colore per circa quattro o cinque anni. In questo periodo fui assunto ed iniziai a lavorare e da qui capii che la musica era del tutto diversa rispetto a quella che avevo ascoltato (e che si ascoltavano) in Nord America. Ricordo che un giorno una persona di livello superiore al mio a mò di monarca mi prese da solo nella sua stanza e riferendosi a dell’operato che avevo svolto mi disse “che ti credi ? guarda che qui non sei in America …ecc…”. In poche parole il mio approccio era troppo “Agile” rispetto alla metodologia italiana e questo era un valore aggiunto che sarebbe stato ciecamente cestinato.

Rimasi ancora piu sconvolto quando dopo aver cambiato azienda mi resi conto che era la stessa identica solfa, se non peggio, che la meritocrazia non conta come dovrebbe bensi a volte spalare la merda è molto piu riconosciuto. Dal 2000 siamo passati al 2011 e di acqua sotto i ponti ne è passata…non solo per me ma anche per molti come me nel nostro paesiello…sul lavoro a costo di accaparrarmi un contratto a tempo indeterminato (e tocco il cielo con un dito)  ho dovuto ricominciare quasi tutto d’accapo, passare in un area di business in cui non avevo mai lavorato scalando di ruolo e vedendomi riconosciuto ben poco rispetto a quello che avevo fatto prima. Però sono tosto e per questo non mi sono dato per vinto, credo profondamente che anche in Italia ci sia la qualità ed i buoni come me, ho ripreso il libri in mano, è molto dura e stressante e mi sono certificato come Java Enterprise Architect (fonte Oracle) .

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